Il fatto che internet rappresenti una reale opportunità di sviluppo economico è sotto gli occhi di tutti.
Un recente rapporto di McKinsey ha però evidenziato che in Italia “tra dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare”.
Ovvero i dati dall’analisi comparata tra l’approccio alla rivoluzione digitale da parte dei paesi del G8 e delle economie emergenti (Cina, Brasile, India, etc.) hanno sottolineato che l’Italia è il paese che meno di tutti si sta avvantaggiando con le potenzialità offerte dalla rete.
Ebbene si, più internet vuole dire più ricchezza.
Gli studi hanno evidenziato che la rete ha un impatto decisamente significativo sul fronte occupazionale.
Ad esempio in Francia il web ha incrementato l’occupazione di quasi 1,2 milioni in quasi 15 anni. Allo stesso tempo l’avanzamento tecnologico ha portato alla perdita di circa 500 mila posti di lavoro. Il saldo comunque resta ampiamente positivo (+700 mila). In Italia il saldo è positivo di solo 300 mila unità.
Allo stesso modo, le ricadute sul Pil non sono trascurabili. Alcuni studi hanno dimostrato che ogni 10% di aumento di penetrazione della banda larga, la ricchezza di un paese in termini di Pil cresce dell’1%.
L’Italia però sembra arrancare. Molti individuano la causa principale di questo deficit nelle carenze infrastrutturali.
Per molti aspetti, la banda larga nella nostra penisola sembra un’utopia.
L’obiettivo dell’Agenda Digitale Europea che pone come obiettivo minimo la connessione garantita a 30 megabit sembra veramente una chimera dato che oggi si fa fatica a raggiunge i 3 megabit.
Ma non è solo un problema di banda. È un problema di cultura. Anche di cultura imprenditoriale.
Per molti anni e per molte aziende l’approccio digitale è stato ristretto al solo dotarsi di un sito internet.
Un po’ poco come rivoluzione.
Si è ristretto un cambio di paradigma al mero dotarsi di uno strumento in più.
Sicuramente gli strumenti hanno il loro peso in questo contesto. Ma non possono esaurire da soli l’interpretazione di un mondo che ha cambiato fisionomia in pochi anni.
È cambiato l’approccio. Le aziende per anni hanno lavorato in un’ottica “push”: ho sviluppato il mio prodotto e spingo sulla forza commerciale per andare a imporlo.
A prescindere dall’approccio di marketing nella definizione dei prodotti e delle strategie di vendita, restava pur sempre una visione “one way”.
Internet ha dato forza reale al concetto di rete.
Le interazioni si sono moltiplicate e anche i ruoli fornitore-cliente hanno perso la loro precisa identità.
La rete ha portato non solo condivisione ma anche commistione.
La rete ha fatto cadere i confini nazionali tradizionali ma ha fatto cadere anche i confini tradizionali dell’azienda.
Un’azienda che sempre più diventa un unicum non solo con i clienti ma con tutto il suo ambiente di riferimento, con tutti gli stakeholders.
La sublimazione del concetto della catena del valore di Porter.
Tutto questo prescinde dal sito internet e prescinde anche dagli strumenti 2.0 che in ottica social hanno dato ancor più la possibilità di rafforzare queste connessioni.
È cambiato il modo di fare impresa.
Ed è cambiato abbattendo uno dei taboo tipici dell’azienda italiana (e veneta in particolare): la gelosia dei propri segreti.
In questa nuova realtà l’azienda deve aprirsi, parlare e ascoltare, condividere, confrontarsi in modo trasparente e continuo.
La visione “one way” è ormai archeologia industriale.
Ma anche l’approccio “two way” mostra i suoi limiti.
Siamo nella stagione delle “many way”. Tanti canali aperti verso interlocutori diversi: clienti, fornitori, comunità, etc.
Il mondo si è aperto. Ma con un palcoscenico globale si apre un mondo. Un mondo dove, grazie agli strumenti internet, anche le piccole e medie imprese possono trovare una loro dimensione.
Ma oltre allo strumento serve anche il giusto approccio.