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Prendo a prestito dall’Art Directors Club Italiano l’occasione per dire qualche parola su un argomento piuttosto spinoso e complesso, allargando il contesto anche ad altri soggetti. Nel blog dell’ADCI compare un articolo (chiamarlo post mi appare riduttivo) in tre puntate, a firma pasquale Barbella, sulla (purtroppo) diffusa pratica del fake. Il termine, cristallizzato nella sua indiscussa e indiscutibile accezione negativa significa “finto, falso” e, quando applicato al settore della pubblicità, sta ad indicare un lavoro, una campagna, che sono stati creati o modificati ad arte con il solo e unico scopo di partecipare a concorsi o essere inseriti in portfolio o annual (raccolta annuale di lavori) più o meno prestigiosi. Per quanto riguarda la partecipazione ai concorsi il premio è palese (in denaro o comunque in autopromozione, aumento della brand reputation e così via).
Un po’ meno evidente invece è lo scopo che ci si prefigge con l’inserimento in qualche annual o porfolio. Come matrice comune rimane l’aumento di notorietà dell’autore della campagna, ma esiste anche la possibilità (e questo per esempio è il caso dell’annual dell’ADCI) che l’essere presenti in quella pubblicazione rappresenti conditio sine qua non per potersi iscrivere all’ADCI.
Come dice il presidente dell’ADCI Massimo Guastini in questo post, i fake sono “quei lavori nei quali marchio e prodotto di un cliente (ancorché informato e consenziente) vengano usati solo per generare un contenuto adatto a colpire l’attenzione dei giurati nei festival pubblicitari più importanti del mondo.
In questi casi il prodotto vero che si vuole vendere è in realtà la capacità creativa dell’agenzia. O degli autori”.
In questo articolo in 3 parti, Pasquale Barbella parla del fake, tipizzandolo in soft, medium e hard. Provo a sintetizzare:

  1. Soft fake: la campagna esiste, ma il cliente l’ha modificata, così viene presentata la versione “pura”.
  2. Ordinary fake: si crea una campagna ad hoc, ce la si fa commissionare ex post da un piccolo cliente, e si esce su qualche bollettino di sagra paesana o piccolo giornale.
  3. Hard fake: non esiste il cliente e nemmeno il prodotto. Tutto è inventato a bella posta.

Concordo sul fatto che i tre tipi sono a scorrettezza crescente.
Però non mi sono simpatici nemmeno i soft fakers.
Perché, cari miei, il cliente è parte integrante della campagna. E se questa è stata pubblicata con variazioni (e solo dio sa quante ce ne sono capitate in agenzia) richieste da colui che l’ha commissionata, quella è la versione che dovrebbe essere presentata al concorso. Altrimenti rimane una campagna che non ha mai visto la luce. E quindi impresentabile, non concorribile, nemmeno lontanamente eleggibile.
Il punto è che questa pratica altro non fa che confermare ciò che in agenzia ci stiamo ripetendo da tempo:  è ora di riprendere in mano la nostra professione, di dare nuovo spazio al pensiero, contrapposto alla pratica di smanettare su internet.
È ora di smetterla con il faking dei pubblicitari, ma anche con le gare finte delle aziende, in cui il vincitore è già stabilito prima ancora che venga convocata la fake competition.
È ora di smetterla con i numeri improbabili delle tirature di giornali e riviste, con i bandi di gara messi in rete creando competizioni a cui partecipano migliaia di soggetti per un compenso ridicolo che quasi sempre nessuno porterà a casa: il logo dell’azienda sarà composto da tanti pezzetti ascrivibili ad altrettante proposte e quindi nessuno avrà diritto a nulla.
È ora che ci svegliamo, agenzie e clienti. È ora che un po’ di etica rientri a far parte del quotidiano.
Sul filo del rasoio ci stiamo camminando da un pezzo, e scivolare e farsi molto male diventa sempre più probabile.

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