Modo di dire, luogo comune, legge di marketing? Difficile dare una definizione di questo “assioma” che ha accompagnato un po’ tutti gli operatori della comunicazione.
Ma è veramente così oppure siamo davanti a un falso mito creato appositamente quasi a volersi garantire una rete di salvataggio in caso di campagne non proprio efficaci?
Sicuramente il fatto che “se ne parli” resta un obiettivo prioritario di una campagna di comunicazione.
La brand awarness toglie il sonno la notte quasi fosse una battaglia contro tutto e contro tutti da combattere con ogni mezzo.
Ma oggi parlare solo di notorietà di marca non è più sufficiente. Per ottenere un reale vantaggio, la notorietà deve essere abbinata alla reputazione.
Quindi “bisogna parlarne” e soprattutto “bisogna parlarne bene”.
Un “bene” che assume varie sfaccettature. Non solo qualità del prodotto, attenzione al cliente, gestione delle relazioni.
La comunicazione avrà sicuramente, tra gli altri, anche questi contenuti. Ma oltre ai contenuti contano anche le modalità.
Da sempre si è puntato a fare campagne corrette dal punto di vista comunicativo e accattivanti dal punto di vista creativo.
Spesso però si è tralasciato il modo di proporre la campagna, il timing, il contesto.
Non nel senso della scelta dei media e della coerenza con le strategie aziendali ma nel senso dello stile e della modalità di fruizione da parte del target di questi media.
Questo aspetto ha condotto sulla cattiva strada l’advertising e la comunicazione in generale.
Ha portato all’invadenza e all’arroganza della comunicazione. E ciò equivale a “parlarne male”.
Siamo sicuri che far passare uno spot che interrompe un film nel momento cruciale sia effettivamente un bene?
Il pubblico, magari numeroso, in quel momento si aspetta il grande colpo di scena, e lo aspetta da qualche ora, e cosa si trova? Uno spot.
Uno spot imposto, non bypassabile, che reclama attesa e che fa sorgere un senso di impotenza.
Ok, il pubblico si ricorderà il brand ma che sensazione, che emozione abbinerà ad esso?
Probabilmente fastidio e insofferenza.
Portiamo a casa la notorietà, ma la reputazione?
Stessa evoluzione ha avuto internet.
Lo strumento nasce per condividere informazioni, conoscenze ed esperienze.
Ma subito è divenuto terreno di caccia della pubblicità.
Oggi internet è interpretato sempre più come strumento di servizio. Siamo sicuri che il navigatore, alla ricerca di informazioni, resti positivamente impressionato da un pop-up pubblicitario che improvvisamente si apre a tutta pagina o da un banner psichedelico?
Sicuramente in questo caso l’utente ha qualche potere in più rispetto alla televisione (può chiudere il pop-up) ma il fastidio e l’insofferenza restano. E queste sensazioni si riverseranno sulla percezione del brand.
Nel nome de “l’importante è che se ne parli” (in questo caso meglio dire “si veda”) la pubblicità è diventata arrogante. Entra nella sfera del pubblico con violenza e prepotenza (e per ovvi motivi di spazio tralasciamo qualsiasi analisi sull’arroganza dei contenuti e la degenerazione della creatività).
Si parla sempre più di centralità del singolo, di dialogo, di interpretazione dei bisogni specifici ma lo si fa solo per aumentare il bombardamento comunicativo.
Questo è diventato uno dei limiti della comunicazione.
Una comunicazione che vuole essere vicina al cliente ma che spesso non lo rispetta.
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