De Sica, Rodriguez, Hunziker, Travolta, Incontrada, Panariello, Litizzetto, Mina, Clooney, Totti, Blasi: sembra la formazione della prossima partita del cuore in realtà è solo una minima parte dell’esercito di testimonial che nell’ultimo periodo ha invaso il panorama pubblicitario italiano. E l’opinione dei professionisti si spacca. Testimonial si? Testimonial no?
Sicuramente gli spot che vedono coinvolti questi volti noti spesso peccano di scarsa creatività con sceneggiature banali, quasi mai realmente ironiche. Quindi il ricorso al “personaggio” sembrerebbe camuffare, anche se non totalmente, un certo vuoto creativo.
In realtà questa strategia creativa cerca di cavalcare e di sfruttare la monocultura televisiva italiana, in parte già iniziata ai tempi di Carosello. L’obiettivo è quindi quello di sfruttare, o meglio sperare di sfruttare, una proprietà transitiva: la notorietà del testimonial aumenta la notorietà di marca (e vista la tendenza ad usare delle coppie forse si spera in un raddoppio di notorietà). In alcuni casi si cerca di bruciare le tappe cercando una repentina crescita della notorietà della marca anche se non debitamente sostenuta da una valida brand equity.
Ma aumenta la notorietà del committente o del personaggio? E inoltre è corretto parlare di testimonial? Che testimonianza può portare una soubrette televisiva o un comico sull’utilizzo di un prodotto tecnologico o per la casa?
Sicuramente diverso sarebbe il discorso se, ad esempio, si ricorresse a Fernando Alonso per pubblicizzare le doti sportive della nuova Alfa Romeo.
Sembrano, quindi, mancare gli elementi fondamentali: l’esperienza e l’autorevolezza.
I vantaggi della tranquillità e della riduzione dell’incertezza portati da una testimonianza fattiva sembrano cedere il passo all’emulazione degli stili di vita dei vip (o presunti tali).
L’iper rotazione dei volti utilizzati, inoltre, crea un certo disorientamento nel pubblico che non riesce a creare il giusto binomio marca-personaggio.
I risultati comunque ci sono ma probabilmente sono dovuti più a una pianificazione molto capillare, possibile a fronte di budget elevati, che alla reale valenza del “prodotto comunicativo”.
Nel btb la situazione è, ovviamente, diversa e non solo perché diversi sono i budget a disposizione.
L’utilizzo del testimonial, crescente anche in questo settore, serve per mettere al centro la persona/cliente.
Il testimonial non è quindi il personaggio famoso ma il professionista che parla lo stesso linguaggio e ha le stesse problematiche del potenziale cliente. La testimonianza ritorna quindi alla sua essenza primordiale: “io ho scelto questo prodotto e sono soddisfatto… lo sarai anche tu”.
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Il post è ricco di domande che spero possano avviare un dibattito anche se sono in realtà domande retoriche perché implicitamente (ma neanche tanto a partire dal titolo) date una risposta precisa: i testimonial non servono.
I pubblicitari sui testimonial si dividono. Chi può gestire risorse per averli li esalta chi non può gestire budget importanti li denigra.
Il problema forse non sta nel testimonial in quanto tale ma nell’uso che se ne fa. Spesso sembrano buttati dentro uno storyboard tanto perché fa figo (Travolta nello spot telecom è emblematico).
Se fossero gestiti meglio il circolo virtuoso di crescita della notorietà reciproca potrebbe beneficiarne.
Travolta nello spot telecom è quasi patetico (oltre che di plastica).
Devo dire però che “cosa ha fatto ieri l’internet” di Totti mi ha fatto ridere.
In linea generale il problema è che questi testimonial sono veramente poco credibili.
Non mi sembra male la soluzione adottata da fiat che sviluppa un co-marketing con l’azienda vinicola di Cristopher Lambert per publiccizare i doblò.
L’unico dubbio che mina lo spot è se il co-marketing è vero (e quindi Lambert funge realmente da testimonial) o è inventato per necessità comunicative e di copione.
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