Quanto tempo avete speso (o spendereste) per scegliere il nome di vostro figlio?
Quante ipotesi, quante valutazioni, quanti incontri/scontri con il coniuge?
E quanto tempo si spende mediamente per scegliere il nome di una nuova azienda o di un nuovo prodotto?
Nelle aziende industriali (ma non solo) sicuramente meno, molto meno.
In questo caso il nome è visto come un corollario necessario ma non importante; i problemi sono altri e sembrano essere sempre i più pressanti.
Ecco che il nome viene buttato là alla fine, proprio perché si deve, magari convincendosi che si è sempre in tempo a cambiare idea.
Ma non si può cambiare idea, o meglio non è conveniente.
Una volta scelto e comunicato all’esterno questo nome segna in modo inequivocabile la vita dell’azienda o del prodotto.
Che senso ha cambiarlo dopo poco tempo, creando confusione e perdendo la notorietà che ha già creato?
Il nome va studiato, e bene.
Così, negli ultimi anni le aziende (anche quelle btb o quelle più piccole) hanno capito che il naming è un’attività di importanza primaria.
E non dipende solo da una valutazione affettiva, estetica o fonetica.
Insieme al marchio, che rappresenta la sua espressione visuale, il nome è il primo contatto che il mondo esterno ha con l’azienda o con il prodotto e come sempre il primo contatto è fondamentale.
Il naming diventa così attività strategica.
Deve essere selezionato considerando gli obiettivi, il posizionamento, l’immagine, tenendo conto del background storico, culturale e tecnico degli interlocutori, delle peculiarità e delle specificità geografiche e sociologiche dei singoli mercati.
Il nome deve evocare, ispirare, comunicare, generare ricordo.
Il nome (come il marchio) deve guadagnarsi un posto preciso e vincente nella mappa mentale del cliente.
Inoltre il naming non è solo un’attività di marketing.
Anche gli aspetti giuridici impattano soprattutto sul versante delle registrazioni e quindi dell’effettiva utilizzabilità (per esempio è fondamentale accertarsi che un concorrente non abbia già depositato il nome che stiamo scegliendo).
Quanto importante può essere e quanto tempo può richiedere una simile attività?
La problematica diventa ancora più pressante se analizzata in un’ottica di internazionalizzazione perché il nome scelto che risulta perfetto per il mercato italiano può essere controproducente per alcuni mercati esteri.
Problemi di lingua. Una parola positiva in italiano può avere un significato negativo in un altro paese.
Ecco quindi che si pone una scelta engimatica. Valutare un nome alternativo, valido per tutti i mercati o procedere con naming specifici per i mercati “particolari”?
In alcuni casi succede che non si arrivi alla fase della scelta semplicemente perché questo aspetto non è stato preso in considerazione.
Si creano così delle situazioni imbarazzanti (ma sarebbe più corretto definirle come aziendalmente drammatiche) che ex-post possono sicuramente strappare un sorriso ma che in realtà chiamano l’azienda a uno sforzo importante per rimediare a un danno che sicuramente è più importante di quanto si potesse pensare.
I casi sono molteplici e coinvolgono anche i grandi colossi multinazionali.
Ultimo caso quella della Gilette (ne avevamo già parlato qui ) la quale ha avuto non poche difficoltà a chiudere il contratto di sponsorizzazione con il Flamengo (la squadra di calcio più famosa del Brasile) perché in quel paese vengono definiti “gilette” i transessuali.
Nike per penetrare i mercati arabi ha dovuto far ricorso esclusivamente al suo isotipo (lo swoosh) eliminando il logotipo Nike in quanto quella parola nei paesi medio orientali suona come un insulto.
Il problema fu relativo in quanto ormai lo swoosh parla da solo.
Più divertente il caso di prodotto cosmetico denominato Country Mist dalla rinomata Estée Lauder. Per gli inglesi sicuramente evocativo dei tipici paesaggi britannici al mattino ma difficilmente accettabile in Germania. In tedesco Country Mist non significa nebbiolina di campagna ma letame.
Uno spagnolo invece difficilmente avrebbe comprato uno dei fuoristrada più in voga vent’anni fa: il Mitsubishi Pajero. Pajero in spagnolo significa “masturbatore”. Un naming decisamente d’appeal per un target che dovrebbe fare dell’auto un segno di virilità. Il nome venne modificato in Montero.
Nel campo industriale (anche se non è un caso di naming ma di errata traduzione del copy) abbiamo il caso di un’azienda che produce generatori di correnti che per pubblicizzare i propri prodotti negli Stati Uniti ricorre a una head-line sicuramente impattante in Italia: una pagina completamente nera con scritto (su tre righe) no – black – out. Peccato che negli States la frase assumesse una connotazione strettamente razzistica.
Pensiamo ancora che la scelta del naming non sia importante?